Scarpe leggere, crema solare, cappellini e si parte per la terza tappa di questo cammino. Lasciamo San Sepolcro per muoverci verso Candeggio, una località di due case e quattro anime. In realtà cinque anime: due ragazzi come minimo un po' particolari e i loro tre piccoli deliziosi figli, che fanno ospitalità pellegrina proprio tra le vecchie mura della loro abitazione, tra le loro cose, tra oggetti e libri un po' ovunque, i giochi dei bimbi e la voglia di fare qualcosa di diverso. Il navigatore satellitare manda Alessandro per una via che ci entrerebbe giusto un Ape Piaggio, ed è costretto ad una complicata manovra per rigirare. Tuttavia come spesso capita, quello che si presenta come un evento fastidioso, in realtà cela un dono. Cercando la via migliore per salire a Candeggio incrociamo un piccolo bus: scendo a chiedere e l'autista mi si raccomanda di non salire fin su col 12 metri, perché probabilmente si incastrerà nei tornanti. Dal sopralluogo che feci ero sicuro che la strada fosse sufficientemente larga, ma alla fine io faccio la guida e loro guidano il bus: a ognuno le proprie competenze e si va sul sicuro ad un punto di partenza alternativo. Cominciamo in comoda salita su strada bianca e subito siamo affiancati dalle ginestre odorose, che ci accompagneranno prendendoci tra due gialli binari. Ma anche cisto, rosa canina, ranuncoli, papaveri, oltre a una moltitudine di fiori che non ricordo o non conosco. In un punto panoramico vediamo velato in lontananza il Monte Penna, lo scoglio di calcare che sovrasta la Verna, salito il primo giorno. Indico il tragitto che abbiamo fatto finora scorrendo col dito crinali e valli; a tutti saranno tornate in mente tante immagini dei due giorni passati. A me sembra che siamo in giro da una settimana. Per una comoda strada in asfalto leggero giungiamo alla Pieve de' Saddi, che custodiva le spoglie del soldatoconvertito al cristianesimo-martire che uccise il Drago a Città di Castello. Un prato verde, due olandesi, il Chianti offerto dalla Miriam, le foto delle nostre “Giuliette” al balcone della casa pericolante, il papavero sul tetto, la foto di gruppo e la pausa pranzo passa leggera. Riprendiamo a camminare, il sole picchia, l'asfalto sulla strada si fa più compatto; intorno si intravedono pendii coltivati e un trattore in lontananza si arrampica a lavorare il suo erto terreno. Un ciliegio ci offre qualche giovane frutto. Si scende poi al Carpina un po' sparpagliati sulla via e si risale verso Candeleto per una lunga salita. Qui ci sono la Dona e padre Paolo che si aggiungono al gruppo, qualcuno invece sale sul bus. Il tramonto di Thoreau ci fa sognare un attimo di paradiso e siamo quasi a Pietralunga, che poi si chiamava Pratolungo e come un prato possa diventare una pietra non si sa. Appena ci infiliamo tra i vicoli arriva improvvisa la pioggia, ma siamo praticamente arrivati; la veranda di un ristorante e qualche balcone ci salvano da una beffa finale, proprio lì dove la mannaja del boia si è ripiegata di fronte alla fede di un puro. Si sale sul bus e via verso Gubbio, la città dei ceri che in 9 minuti salgono alla Basilica sul monte, della patente da matto, del teatro romano, di Francesco che placa il lupo, dell'albero di Natale nel bosco, di noi che stasera lasceremo alla città i nostri discorsi importanti, quelli meno seri, le nostre risate, gli ombrelli condivisi, le nostre gambe stanche sui letti e i nostri sogni.
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